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IL TUO DOLORE


Foto di Grae Dickason da Pixabay

Quando mio padre morì, la stanza nell'ospedale dove era ricoverato in lungodegenza ospitava altre due persone, anch'essi in fase terminale. Una sera il medico di guardia ci avvertì che la condizione di mio padre era improvvisamente peggiorata, un'infezione conseguente la malattia già in fase avanzata aveva compromesso diversi altri organi e i polmoni si stavano lentamente riempiendo di acqua. Era questione di ore, la vita del corpo, quel corpo che una volta mi prendeva in braccio, stava lentamente lasciando il posto a cosa? Solo un corpo senza vita, un corpo senza più quello che era stato mio padre.

Così ci posizionammo intorno al letto, raccolti ognuno nel proprio dolore, mentre mio padre era lì che se ne andava altrove. La stanza però non lasciava molta privacy, era una stanza di medie dimensioni e oltre a noi c'erano altre persone che vegliavano sui loro cari. Guardai l'infermiera ed ella capì immediatamente di cosa avevamo bisogno, andò nella sala accanto, prese dei separè bianchi, si avvicinò e mentre sistemava il tutto, prima di andarsene, mi guardò e disse: “vi lascio con il vostro dolore”. Ero stordito, una voce interiore mi continuava a ripetere che dovevo essere presente, di non perdere neppure un'istante e fuggire con la mente altrove, sapevo che la presenza nella vita che fluiva dentro di me era di aiuto alla vita di mio padre che invece stava fluendo in altre dimensioni. Vedevo l'infermiera andarsene come nulla fosse, rapita dal suo lavoro mentre riordinava il carrello, io lì con il mio dolore e lei a due passi da me che pensava ad altro, aveva decine di pazienti in stato terminale da accudire quella notte. Non c'era tempo per il mio dolore, quel dolore era solo mio e di nessun altro.

Quando mio padre da lì a poco lasciò definitivamente quello che era stato il suo corpo, io non potevo fare a meno di pensare a quella frase dell'infermiera: “vi lascio con il vostro dolore”. Era il mio dolore, quello di mia madre e di mio fratello; ma io, racchiuso in quell'io piccolissimo ero in compagnia del mio dolore che non era quello di mia madre e neppure quello di mio fratello. Ero solo con il dolore, disegnato apposta per me come un vestito che mi calzava a pennello.


Esistono pochissime persone capaci di sentire il dolore altrui, esso si avverte attraverso una vertigine profonda che la maggior parte di noi, troppo identificata con il proprio dolore, non riesce ad avvertire. Sono come pesci che nuotano in una bolla d'acqua.

Questa assurda separazione che ci spinge ad essere stranieri l'uno con l'altro, è dovuta ad un'anestesia indispensabile che ci permette di resistere al dolore che sentiamo. Capiremo più avanti perché resistere è diventato indispensabile e perché questa anestesia, questa morfina psicologica è diventata per noi una dipendenza.

In fin dei conti noi sentiamo un profondo dolore solo in alcuni casi, per fortuna non siamo sempre in contatto con il dolore della perdita o quello dell'abbandono, solo in alcuni casi la brace ardente che si mantiene nelle profondità, da vita ad un incendio.

Noi siamo destinati a sentire il dolore della perdita e quello dello separazione, dobbiamo conoscerlo, esso è un antidoto che ci permette di affrontare la vita. In fin dei conti la prima separazione, il primo indescrivibile dolore c'è stato proprio alla nascita quando ci siamo separati dal nostro mondo intrauterino e siamo venuti alla luce, una luce sterile e artificiale che ci ha battezzato figli dell'uomo.

Dal momento in cui siamo venuti al mondo abbiamo vissuto con noi stessi, con il nostro personale stato psicologico, ci siamo definiti nel carattere, nella maschera persona e abbiamo lottato per sopravvivere, per resistere al mondo, anestetizzando giorno dopo giorno parti di una coscienza che sapevamo essere infinita. Siamo dunque regrediti fino a diventare delle piccole parti separate in relazione al proprio dolore, nato dalla stessa separazione, dalla stessa repressione di quella coscienza che siamo noi ma dalla quale ci siamo separati.


Dobbiamo però renderci conto che non possiamo fuggire per sempre, nei secoli abbiamo generato un'ombra, la somma di tutto ciò che ogni singola persona ha rimosso sta oscurando il cielo. Il dolore che ognuno di noi ha escluso attraverso la separazione è diventato un'unica forma che fluttua al centro del pianeta e preme su ognuno di noi. Il mio dolore oggi sta diventando anche il tuo dolore e il tuo dolore sta diventando il mio. Non c'è più spazio vuoto per escluderlo, per voltarsi dall'altra parte, dobbiamo farci i conti.


Così, tornando in quella stanza di ospedale asettica, illuminata dalla luce artificiale delle lampade al neon, quell'infermiera impegnata nel suo lavoro, quel giorno mentre mio padre moriva, mi disse: “vi lascio con il vostro dolore”... Si, era il mio dolore e quello di nessun altro, era così profondamente radicato in me da farmi credere che fosse solo mio, era un dolore che portava il mio nome e che aveva segnato un confine indelebile tra me e quella misteriosa forza che mi continuava a ripetere di essere presente alla vita per facilitare il passaggio della vita che era mio padre verso la coscienza stessa che è ogni cosa. E' qui il punto d'intersezione che permette al dolore di estinguersi, di non accumularsi attraverso la separazione. E' attraverso l'unione a quella fonte primordiale che possiamo sentire il dolore di ogni cosa attraversarci, facilitando in questo modo un processo che ci vuole portare verso un'altra dimensione, un salto quantico che possiamo raggiungere soltanto se interrompiamo questa continua separazione dalla nostra autentica natura. Soltanto se usciamo da questa anestesia e riprendiamo contatto con il dolore, un dolore insopportabile che abbiamo nei secoli alimentato, possiamo nuovamente tornare all'origine e ricominciare a sentire la molteplicità fluire.


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