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La nostra cultura causale con la loro analogica

(Tratto dal libro mai tradotto in italiano LA MIA VITA CON GLI AUCA dI Joaquín Grau Martínez)

Noi: la causalità può essere paragonata a una torcia che ispeziona una grotta buia. Illumina via via le varie zone e poi, per avere un’idea dell’intera grotta, bisogna ricomporre i pezzi mediante un processo mentale di interpretazione. Alan Watts, uno dei massimi esponenti della controcultura, spiegava questa stessa nozione di causalità con la cosiddetta “ metafora del gatto”: immaginate – diceva – immaginate una parete con una fessura, immaginate che qualcuno ci guardi attraverso- Questo qualcuno ci guarda passare una testa di qualcosa che chiama gatto. Vede la testa perché, per la distanza a cui il gatto passa, la testa del medesimo si staglia all’orizzonte e ciò la rende visibile all’osservatore. Ma poi passa il corpo del gatto; siccome il corpo è più grande, non si staglia all’orizzonte: cosicché l’osservatore non vede niente. Poi passa la coda, che si vede perché è più sottile. L’osservatore prova più volte che, ogni qualvolta che passa una testa di gatto, è seguita da un fenomeno che possiamo chiamare coda del gatto. Naturalmente, per stabilire da questa affermazione una legge causale manca solo un passo. Basta osservare più volte il fenomeno: con la pioggia, col sole, di giorno, di notte… Stabilita la statistica adatta, che naturalmente deve essere matematicamente irrefutabile, ormai l’osservatore può affermare che “ogni volta che si produce un fenomeno, la cui causa è una testa di gatto, ne segue indefettibilmente un effetto che si può denominare coda del gatto”.

Loro: “l’ECD, invece, capterebbe il gatto intero. Gli aucas allo stesso modo captano il bosco come un qualcosa-totalità. La loro percezione analogica stabilirebbe percezioni di similitudine. Per esempio, un gatto è un giaguaro piccolo, un aereo è un uccello grande e un elicottero è una zanzara gigante. E anche relazioni di similitudine-contagio: se si usa il curaro con l’acqua, non devo bere quando manipolo il curaro. Cioè, tra le altre cose. L’analogia non stabilisce relazioni matematiche che permettono di prevedere gli avvenimenti, come avviene con la causalità, indipendentemente dal fatto che sia o non sia certa (alla testa del gatto non segue un effetto-coda, trattandosi d’un gatto intero, senza causa né effetto sulla sua totalità, ma ciò non vieta che la legge si compia, e che a una testa di gatto segua sempre una coda); pertanto, la scienza analogica non sa perché piove e quindi non può prevedere la pioggia. Ma ciò non toglie che possegga un mondo di conoscenze pienamente efficace per la sopravvivenza.

Noi: la lanterna della causalità crea processi mentali analitici; la luce della lanterna – della conoscenza razionale – fa a pezzi il bosco, e così in questo processo di separazione, va parcellizzando lo spazio e creando il tempo. E’ il suo modo di misurare. Il processo consiste nel fare a pezzi e distanziare e poi riunire quanto spezzettato mediante un processo concettuale.

Loro: l’emisfero destro ci permette di vedere il gatto per intero mediante un flash intuitivo. La percezione analogica unisce anziché frammentare. Così l’auca vede ogni cosa come totalità, non come parte di un tutto. Per lui un albero è un tutto-albero, esattamente come il bosco nella sua totalità. E, naturalmente, nella totalità non c’è frammentazione. Tutto occupa tutto lo spazio. E il tempo è un continuo presente; anche se questo presente, senza cessare di esserlo, ha cose più presenti – con maggior intensità energetica – di altre.

Noi: spazio e tempo misurabili crea vie e ponti per quelli su cui scorre la lanterna che via via illumina le parti. Le parti sono considerate un frammento del tutto. Quindi vediamo il tutto attraverso un processo di argomentazione: in quanto discorriamo da un frammento all'altro; ogni frammento si converte in un oggetto di razionalizzazione, e anche una specializzazione. Ed ecco che può succedere che un frammento si consideri più importante dell'altro per il solo fatto di essere meglio conosciuto; e così creiamo gerarchie che non sono oggettive.

Loro: non ci sono ponti né vie né lanterne, perché ogni frammento è un tutto-tutto. In loro, negli auca, il processo non è lineare. Non c'è un tempo operante, c'è un processo d'intensità. Loro non vedono: toccano e, nel peggiore dei casi odono. Perché il loro linguaggio è tattile. Perché la loro strada maestra è una successioni d'impatti energetico-emozionali. E ogni impatto emozionale è un fatto-totalità. Quindi la loro vita è condizionata dall'impatto emozionale. Così uno straniero è sempre qualcosa che colpisce, indipendentemente dall'intenzione che lo anima. Quando l'auca accetta la sua presenza, ciò è dovuto che lo straniero non colpisce oltre il limite di sopportazione.

Noi: Il nostro conscio raziocinante è binario. Funziona come un computer 01. Crea gli opposti; e ciò gli permette di comparare, classificare e giudicare. Dal giudizio sorge il concetto morale. Noi compariamo gli alberi, gli animali, li classifichiamo, li qualifichiamo, li giudichiamo (sotto il profilo della nostra convenienza o pregiudizio) e stabiliamo gerarchie. Il giaguaro è più pericoloso dell'anaconda, quindi è anche peggiore dell'anaconda. Il puma è meno pericoloso del giaguaro, però entrambi lo sono abbastanza dal doverli far fuori. Così procediamo classificando e qualificando – ponendo noi stessi come punto di riferimento – e distruggendo anche tutto quello che non ci piace o crediamo ci sia di minaccia.

Loro: il loro processo mentale è unitivo. Ogni cosa è ogni cosa in sé. Pur possedendo, evidentemente, una valutazione di utilità da sopravvivenza: utilità basata sul sensoriale. La carne di scimmia è meglio di quella di pappagallo, e quella di giaguaro è pressoché immangiabile. Ma questo non li porta a sterminare il giaguaro; e ovviamente, non è una valutazione morale. Il pekari non è cattivo, semplicemente è pericoloso e bisogna far attenzione quando lo si va a cacciare.

Noi: metaforicamente siamo una specie di canale per cui circola tutta l'informazione. Però non siamo cosciente di questa informazione che, comunque, agisce. Perché i nostri polmoni respirano anche quando non ne siamo coscienti, e le ghiandole surrenali emettono adrenalina quando qualcosa ci minaccia. Cosicché per conoscere, per essere coscienti di questa informazione, ci vediamo costretti a chiudere il flusso e invasarne una parte. Una volta invasata possiamo porta al di fuori di noi, oggettivarla. Possiamo perfino cambiare l'ordine degli elementi informativi di tale porzione invasata. Lo chiamiamo creare, e anche sentimento estetico. Cosicché prendiamo coscienza del bosco ponendolo fuori di noi: lo oggettiviamo. Ed essendo questo un processo duale, questa dualità sorge in forma di “io e l'altro”. E “io” è tutto ciò con cui mi identifico; l' “altro” è quanto si trova fuori di tali identificazioni. E chiaramente, spezzato il cordone ombelicale col tutto, divisa la realtà piena, quanto non è io, quanto è l'altro, quanto si trova (credo si trovi) fuori di me, è qualcosa che io non controllo. E' in definitiva un potenziale nemico. Pertanto devo dominare tale nemico prima che mi aggredisca e mi domini lui. E cominciamo a mettere ordine nell'ordine naturale; creiamo un ordine matematico, geometrico che si adatta al nostro concetto cosciente-riflesso della realtà. In concreto, nel bosco bosco gli alberi non sono ben in ordine, sono un ostacolo e impediscono che lo percorra con rapidità – in accordo con la mia rapidità matematica e lineare -. Inoltre, nemici potenziali possono utilizzare questi alberi per tendermi un agguato; cosicché, in definitiva, faccio strade lineari, geometriche, nel bosco, e per rendere tutto più ordinato ci metto dei semafori. E questo mi tranquillizza. Ho messo ordine e distanza – più oggettività all'oggettività – ed ecco che ora posso dormire tranquillo.

Loro: non interrompono il flusso formativo che gli si presenta. Sono quasi un sistema nervoso autonomo. E non creano separatezza. Essi vivono nell'unicità. Sogno e realtà sono quasi una stessa cosa. Tutto è sogno. Tutto è realtà. Essi sono il bosco e il bosco è essi stessi. Non c'è paura di paura; e se c'è è poca. C'è, si, un timore animale: quello dell'adrenalina. E ovviamente non c'è niente che vada cambiato nel bosco: perché il bosco non è fuori di loro. E l'ordine del bosco, l'ordine naturale, è il loro ordine: l'ordine dell'inconscio, e anche se è sicuro che non possiedono la coscienza causale-matematica, è non meno certo che possiedono (agiscono come se la possedessero) la conoscenza dell'inconscio collettivo, la conoscenza che regge il cosmo come totalità. Essi e il bosco sono una stessa intelligenza. E la vita del bosco è la loro vita. Per questo essi, inconsapevolmente, proteggono il bosco e il bosco li protegge.

Noi: questo “io-l'altro” condensa, indurisce il nostro io. Ce ne facciamo scudo, alziamo muri e corazze, ci facciamo sempre più io. E così creiamo l'ego. Passiamo dall'io-individualità all'ego-personalità (maschera). Quello che posso essere io-Totalità finisce per esser frazione dell'io che cerca l sua controparte, mentre l'immagine dell'io che è l'ego la rifiuta. E, giorno dopo giorno, ci disgreghiamo sempre più. Ci facciamo di volta in volta più ego stesso (non io stesso). Tramutati nella falsa immagine del nostro io, cerchiamo di far girare tutto intorno a questa maschera-immagine, vogliamo che tutto la alimenti. Siamo movimento centripeto. Vogliamo assorbire la Totalità; farci Totalità deglutendola; e così pensiamo, senza pensare, che una volta che abbiamo assorbito Dio tutto sarà il mio ego-io; e tutto sarà fatto a mia maschera immagine e somiglianza; anche il bosco. E una volta che tutto sia io-ego, allora la comunicazione sarà l'eccelsa e nulla comunicazione di chi si comunica da maschera a maschera.

Loro: il loro movimento è centrifugo, ecologico. Si fondono con la Totalità. Non impongono il loro io. Il loro io si fa tribù, e il loro io-tribù, io-tasso barbasso, io-giaguaro è al tempo stesso io-bosco. Io-bosco è per loro oggi anche io-Totalità. E' il sé stesso; perché loro non tentano di assorbire Dio: lasciano che Dio-bosco – la loro Totalità – li assorba. Per questo la loro comunicazione pur essendo dal proprio io al proprio io, è dalla Totalità alla Totalità: in definitiva, dalla Totalità al loro io.

Noi: abbiamo reciso il cordone ombelicale. Siamo nati a un mondo nuovo e terribile. Siamo bambini perduti nel macrobosco del cosmo. E viviamo il terrore di non sapere se abbiamo perduto il paradiso o se camminiamo verso un nuovo e più vasto paradiso.

Loro: permangono sempre nella sicurezza e nella dolcezza dell'utero-bosco. Le agitazioni sono dunque quelle che giungono loro dal sistema nervoso della madre-bosco. Vivono immersi in essa, senza tagliare il cordone ombelicale, fluttuando nel liquido amniotico, addormentati. Adesso il loro timore, il loro grande timore, è che giunga l'ora di dover sorgere al mondo esterno o che il mondo esterno irrompa nel loro.

Noi-loro: questa ora, il terribile momento per loro di perdere la sicurezza dell'utero-bosco, è già arrivata. Noi abbiamo creato un'interferenza nella loro comunicazione madre bosco-feto. E adesso o nascono – magari col forcipe – o moriranno. In tutti i casi moriranno, perché nascere a un nuovo stato è un morire dello stato precedente.

Socrate nel Fedro, rileva già questa dualità, quasi antagonismo, tra i due emisferi cerebrali. Nel suo “mito del carro e dell'auriga” paragona l'anima umana a un carro tirato da due cavalli – uno bianco e uno nero – che cercano di avanzare in direzioni diverse e che a malapena l'auriga riesce a dominare.

(Tratto dal libro TU E IL TUO SPECCHIO dI Joaquín Grau Martínez)

"Quando Ubi si mangiava i miei pidocchi io che, sebbene bastardo, continuo ad essere figlio di Guteberg, pregai Quento - la guida auca che mi rese possibile entrare in contatto con questa etnia - di dire a Ubi che non lo facesse perché quei parassiti sono portatori di ogni tipo di malattie. E Quento, che sa leggere, assentì con la testa e trasmise il mio messaggio a Ubi. Beh, se quel giorno Ubi non morì dal ridere fu perché il destino ha deciso che sia immortale! E tra mille risate Ubi disse a Quento di dirmi - io ero l'immagine perfetta di un subnormale nella foresta - che fin da bambina se li mangiava e non era ancora stata ammalata un giorno. Ed io, sinceramente mi sentii molto ridicolo con la mia cultura libresca.

Cosicché gli auca non si domandano se va bene prendere il sole, e non hanno bisogno di ragionare sulle proprietà del sole, gli auca si limita a goderne e ad aspettare il linguaggio del proprio corpo che gli dice - senza frapporre distanza - quando devono o non devono proteggersi dai raggi solari.

Ma ciò che importa è che quando un auca passava la mia testa cercando i pidocchi o il mio corpo cercando i piccoli parassiti che si annidavano nella pelle io sentivo, in questa vicinanza, il caldo affetto delle loro mani, sapevo con tutta certezza, senza possibilità di sbagliare, che quell'auca era mio amico".

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