di Maurizio Falcioni
“Quando mi si dice che sono un sapiente o un saggio mi rifiuto di crederlo. Un uomo una volta immerse un cappello in un fiume e lo ritrasse colmo d'acqua. Che vuol dire? Non sono quel fiume. Sono in riva al fiume, ma non faccio nulla. Altri si trovano sulla riva dello stesso fiume, ma molti di loro pensano di doverlo fare essi stessi. Io non faccio nulla. Non penso mai di essere colui che si debba preoccupare che le ciliege abbiano gambi”.
- Carl Gustav Jung -
con le regole della scuola, i sermoni che il padre ripeteva durante la liturgia e ogni altra struttura confinata nei limiti del n.1.
Il periodo della malattia
Ben presto, in giovanissima età, il piccolo Jung si trovò a vivere una vera e propria crisi d'identità che fece preoccupare non poco i suoi genitori. Era depresso e bloccato in quella spaventosa scissione interiore che sentiva possederlo. Nel tumulto di tale bufera infantile trovò qualcosa che lo aiutava a progredire giorno dopo giorno. Si trattava di un piccolo astuccio dove aveva depositato un manichino vestito in finanziera, inciso e poi ritagliato da un regolo. Infine aveva depositato il manichino in finanziera su un piccolo lettino che insieme a un ciottolo del Reno, oblungo e levigato, nascondeva riposto nell'astuccio in quella che lui chiamava, la soffitta proibita. Questo per Jung fu il suo segreto, qualcosa che ritornò successivamente attraverso profonde riflessioni quando scrisse: “Non vi è mezzo migliore per preservare il prezioso carattere dell'individualità che il possesso di un segreto, che l'individuo sia impegnato a custodire”.
Nel continuare i suo giorni la malattia fu per lui una strategia che lo allontanava dalle responsabilità che avevano tutti i bambini della sua età e gli dava la possibilità di passare molto tempo libero nella natura. Era come se fosse assorbito dal n.2 del quale comprese solo in seguito la forza dirompente e alienante, in un momento della sua crescita dove non poteva escludere il n.1 che invece era indispensabile per divenire chi già intuiva essere.
Un giorno, un amico del padre venne a trovarlo, Jung li sentì parlare in giardino della sua condizione di salute. Il padre si lamentava tristemente del fatto che non aveva molti soldi per mantenere la famiglia e che se la malattia del figlio si fosse aggravata non sarebbe riuscito ad immaginare come avrebbe potuto guadagnarsi da vivere. Sentendo quelle parole, rubate mentre era in giardino, il piccolo Jung percepì come un ordine interno e si risvegliò alla realtà.
Scrive: “Da quel momento divenni un ragazzo serio. Sgusciai via, andai nello studio di mio padre, tirai fuori la grammatica latina, e cominciai a imbottirmi la testa, concentrandomi intensamente. Dopo dieci minuti svenni, e quasi caddi dalla sedia. Ma in breve mi ripresi, e continuai a lavorare. "Al diavolo, non devo svenire" mi dissi, e perseverai nel mio proposito. Quella volta passarono circa quindici minuti prima che giungesse il secondo attacco: ma anch'esso passò come il primo. "Adesso devi veramente metterti al lavoro!" Continuai con insistenza e dopo un'ora venne il terzo attacco; non desistetti, e lavorai ancora per un'ora, finché ebbi la sensazione di aver vinto: improvvisamente mi sentii così bene come non mi capitava da mesi. E infatti non ebbi più altre crisi. Da quel giorno in poi mi misi al lavoro ogni giorno, sia con la grammatica sia con gli altri libri e dopo poche settimane tornai a scuola, e non stetti più male. Tutto era finito per sempre: imparai allora che cos'è una nevrosi.”
Il primo sogno di Jung
Come abbiamo detto, il padre di Jung era un pastore e aveva fatto lunghi studi in teologia. Quando lo scoprii mi balenò alla mente un'immagine contemporanea, ebbi chiaro lo scenario apocalittico di un inevitabile conflitto interiore, lo stesso che si genera quando un adolescente si trova incompreso nel proprio nucleo familiare e magari per sua disgrazia non abbia alcuna risorsa interiore.
Jung invece aveva molte risorse e fu il padre a doversene rendere conto a causa dell'insistente ricerca di verità del figlio che lo sottoponeva a numerosi interrogatori. Per sfortura di Jung questi finivano spesso e volentieri con l'innalzamento delle barricate di difesa da parte del padre e di una visibile seccatura a causa della sua insistenza.
Prima ancora del confronto intellettuale tra padre e figlio, quando aveva solo tre o forse quattro anni Jung fece un sogno, il primo conturbante sogno della sua vita e potremmo dire, l'iniziazione al proprio demone interiore. Lo stesso Jung definì il sogno così opprimente che per anni ne fu ossessionato.
Scrive: “Presso il castello di Laufen, in posizione appartata, vi era la canonica; dietro, a partire dalla fattoria del sagrestano, si stendeva un grande prato: nel sogno mi trovai in questo prato. Improvvisamente scoprii, nel terreno, una fossa scura, rettangolare, orlata di pietra, mai vista prima; con curiosità mi avvicinai e mi sporsi a guardarvi dentro. Una scala di pietra conduceva giù; scesi, esitando per la paura, e in fondo trovai una porta ad arco, chiusa da una cortina verde, pesante, enorme, che pareva di broccato, molto sontuosa. Preso dalla curiosità di vedere che cosa potesse nascondere la sollevai da una parte: innanzi a me, nella luce incerta, vidi una stanza rettangolare, lunga circa dieci metri; il soffitto era a volta, di pietra sbozzata; il pavimento era lastricato, e al centro un tappeto rosso si stendeva dall'entrata fino a una bassa piattaforma, sulla quale si ergeva un meraviglioso trono d'oro, con sopra - ma non ne sono sicuro - un cuscino rosso. Era un trono splendido, un vero trono regale come in un racconto di fate! Sul trono c'era qualcosa, e a tutta prima pensai che fosse un tronco d'albero, di circa quattro o cinque metri di altezza e cinquanta centimetri di diametro. Era una cosa immensa che quasi toccava il soffitto, composta stranamente di carne nuda e di pelle, e terminava in una specie di testa rotonda, ma senza faccia, senza capelli, e con solo - proprio in cima - un unico occhio, che guardava fisso verso l'alto.
La stanza era sufficientemente illuminata, sebbene non vi fossero finestre e non si vedesse alcuna sorgente di luce; comunque al di sopra della testa vi era un'aureola luminosa. Quello strano corpo non' si muoveva, eppure io avevo la sensazione che da un momento all'altro potesse scendere dal trono e avanzare verso di me strisciando come un verme. Ero paralizzato dal terrore, quando sentii la voce di mia madre, proveniente dall'esterno, dall'alto della stanza, che diceva "Sì, guardalo! Quello è il divoratore di uomini!" Ciò mi spaventò ancora di più, e mi svegliai, in un bagno di sudore, con una paura da morirne. Per molte notti poi ebbi paura di andare a dormire, temendo di poter avere un altro sogno simile.
Questo sogno mi ossessionò per anni, e solo molto tempo dopo capii che ciò che avevo visto era un fallo, e passarono decenni prima che capissi che era un fallo rituale. Non ho mai potuto stabilire se ciò che mia madre intendeva dire fosse "Quello è il divoratore di uomini" o "Quello è il divoratore di uomini". Nel primo caso avrebbe voluto intendere che il divoratore di bambini non era Gesù o il gesuita, (Il gesuita si ricollega all'incontro con il gesuita che Jung vide il giorno prima del sogno e che lo spavento molto) ma il fallo; nel secondo, che il "mangiatore di uomini" in genere era rappresentato dal fallo, sicché Gesù, il gesuita e il fallo erano la stessa cosa. Il significato simbolico del fallo è mostrato dal fatto che si reggeva da sé sul trono, "itifallicamente" (parola in lettere greche, ndr, eretto). La buca nel prato probabilmente rappresentava una tomba, e questa a sua volta era anche un tempio sotterraneo, e la tenda verde simboleggiava il prato: in altri termini il mistero della Terra con la sua copertura di vegetazione verde. Il tappeto era rosso sangue. Che dire della volta? Forse ero già stato a Munot, la rocca di Sciaffusa? Ma non è probabile, nessuno porterebbe un bambino di tre anni lassù; non si, trattava quindi di un ricordo. Non so nemmeno spiegarmi da dove possa essere venuto fuori quel fallo, anatomicamente preciso. L'interpretazione dell'orificium urethrae come occhio, con una sorgente luminosa apparentemente al di sopra di esso, allude chiaramente all'etimologia della parola fallo (parola in lettere greche, lucente, splendido). In ogni caso, il fallo di questo sogno sembra essere una divinità sotterranea "da non nominare", e tale rimase per tutta la mia giovinezza, e riappariva solo quando qualcuno parlava con troppa enfasi di Gesù. Il Signore Gesù per me non divenne mai del tutto reale, né del tutto accettabile e degno di amore, perché sempre mi si ripresentava al pensiero la sua controfigura sotterranea, la paurosa rivelazione che mi era stata concessa senza che la cercassi”.
Si comprende la distanza tra lui e il padre che tale sogno generò nella psiche del piccolo Jung e quella che in seguito diverrà una presa di coscienza nel sentire di non avere nulla a che fare con il tipo di religiosità seguita dalla comunità di cui egli faceva parte e soprattutto una, si potrebbe dire, repulsione, nei confronti della canonica dove da piccolino aveva assistito a numerosi sermoni del padre.
Il secondo decisivo passaggio
Il secondo decisivo passaggio verso l'inevitabile scelta, Jung lo sperimentò durante i primi anni della scuola. Fu proprio in quel periodo che cominciò a salire in lui un disagio che lo turbò per diverse notti. Questo cominciò un giorno d'estate mentre si trovava davanti la piazza del Duomo. Scrive: “Il cielo era di un bell'azzurro, il sole radioso, e il tetto della cattedrale splendeva, con le sue tegole smaltate, nuove, rilucenti. Fui rapito dalla bellezza di tale visione e pensai: "Il mondo è bello, la chiesa è bella, e tutto ciò è stato fatto da Dio, che sta su in alto nel cielo azzurro seduto su un trono d'oro e ... A questo punto ci fu un gran vuoto nei miei pensieri , e sentii mozzarmisi il respiro. Ero come paralizzato, e mi dissi solo: "Non continuare a pensare, adesso! Sta per accadere qualcosa di terribile, alla quale non voglio pensare: qualcosa alla quale non oso nemmeno accostarmi".
Al termine di tale insopportabile pressione Jung accettò la possibilità che quel pensiero così invadente potesse farsi largo in lui guidato dalla stessa disponibilità di Dio nel concedergli quella prova. Assistette così all'irreparabile frattura dalla quale si sprigionò un indescrivibile sollievo. Scrive: “Mi feci coraggio, come se avessi dovuto lanciarmi nelle fiamme dell'inferno, e lasciai che quel pensiero venisse. Vidi innanzi a me la cattedrale e il cielo azzurro, e Dio seduto sul suo trono d'oro, dominante il mondo, e sotto il trono un'enorme massa di sterco cadere sul tetto nuovo e scintillante e abbatterlo, facendo crollare in pezzi i muri della cattedrale.
Era tutto qui! Provai un immenso, indescrivibile sollievo. Invece dell'attesa dannazione avevo ricevuto la grazia, e con essa un'indicibile beatitudine, quale non avevo mai provato. Piansi di gioia e di gratitudine. La sapienza e la bontà di Dio mi erano state rivelate, ora che mi ero piegato al Suo inesorabile comando. Era come se avessi fatto l'esperienza di una illuminazione; tante cose che prima erano oscure divenivano chiare! Ecco che cosa mio padre non aveva capito, pensai, gli era mancata l'esperienza diretta della volontà di Dio, le si era opposto con le migliori ragioni e la più profonda fede - e perciò non aveva mai ricevuto il miracolo della grazia che tutto risana e tutto rende comprensibile. Aveva accettato come norma i comandamenti della Bibbia, e credeva in Dio così come prescriveva la Bibbia e come gli avevano insegnato i suoi avi: ma non conosceva l'Iddio vivente che sta - libero e onnipotente - al di sopra della sua Bibbia e della sua stessa Chiesa, che invita l'uomo a dividere con Lui la sua libertà, che può costringerlo a respingere i propri convincimenti per adempiere, senza riserve il suo comando. Dio, quando mette a prova il coraggio dell'uomo, rifiuta di conformarsi alle tradizioni, non importa quanto sacre esse siano; nella sua onnipotenza provvede perché da tali prove di coraggio non si origini vero male: chi adempie la volontà di Dio può essere sicuro di seguire la strada giusta. Dio aveva creato anche Adamo ed Eva in modo che dovessero pensare anche ciò che non volevano, e li aveva creati così per scoprire se erano obbedienti; perciò poteva anche richiedermi qualcosa che io, fondandomi sulla tradizione religiosa, avrei dovuto respingere. L'obbedienza mi aveva procurato il dono della grazia, e dopo quell'esperienza vitale avevo capito che cosa era la grazia divina”.
Osservazioni conclusive
Credo che questi passaggi esperienziali nella coscienza di Jung abbiano avuto importanza determinante. Sappiamo che accaddero in un periodo, da quanto viene confermato dallo stesso, a cavallo tra i tre e i tredici anni di età, proprio in quella che sappiamo essere la fase di maggiore sviluppo dei cumuli traumatici e soprattutto, tali esperienze ci dimostrano l'impatto irruento di un inconscio già osservato, perchè, non dimentichiamo che Jung in giovanissima età si accorse della sua scissione interiore, quello che oggi potremmo chiamare il conflitto degli emisferi cerebrali.
Jung ebbe un'infanzia che non appare affatto antiquata rispetto ai tempi odierni. In lui si vede il dramma del bambino dotato di cui parla Alice Miller, la predisposizione al mondo analogico dell'emisfero cerebrale destro che descrive Joaquin Grau nel suo trattato di Anateresi e le dinamiche di irretimento che vengono esposte da Bert Hellinger. Oltretutto egli è stato cresciuto da genitori, si potrebbe dire, lontani dalla sua natura originaria.
Appare quindi chiaro e questo è grandemente confermato dallo stesso Jung che la sua guida interiore non è affatto collocabile nel mondo della coscienza ordinaria. Tutta la sua creatività, l'eros come forza dirompente da lui osservato, derivano da un'entità simbolica, quindi numinosa, che trova radice nel significato dell'archetipo. Qualcosa di preesistente alla coscienza che però riesce a condizionarla, come ricorda Jung nei sui libri. Allo stesso tempo un demone e guida che ci spinge con forza primitiva verso una mitologica meta che attraverso il sogno possiamo scorgere perché preesistente, quindi nascosta all'interno del seme che ci contiene.
Le origini
Carl Gustav Jung nacque a Kesswil, il 26 luglio 1875 in una famiglia di modesta condizione sociale. Il padre Johann Paul Achilles Jung era un teologo e un pastore; la madre, Emma Jung Rauschenbach proveniva da una famiglia d'industriali, Jung ne parla come una donna molto forte e con un doppio aspetto della personalità, particolarmente visibile e inquietante. Ovviamente tutto questo traspariva agli occhi del piccolo Jung, occhi pieni di luminosa sapienza in divenire, come una ghianda che si pianta su un terreno fertile.
Possiamo affermare, da quanto emerge dalla sua biografia, che Jung non ebbe un'infanzia facile, ovviamente crebbe in ambienti tranquilli e a contatto con la natura, ma dentro di
sé nascondeva qualcosa che fu proprio lui stesso a riconoscere. Una doppiezza che egli non vedeva come patologica, più che altro scissione naturale che ogni individuo esprime pur senza saperlo. Questa scissione si manifestava attraverso due tipologie comportamentali opposte e in opposizione. C'era il n.1: strategico, mentale, opportunistico, incline a quelle che erano le regole del sistema. E c'era il n.2: questo si esprimeva attraverso quella che Jung definiva la sua pietra. Era quello il punto in cui iniziavano le lunghe osservazioni filosofiche del n.2, proprio lì dove terminava il territorio delle responsabilità sociali e cominciava il bosco con tutta la sua forza magica. Il n. 2 era per Jung qualcosa di irresistibile, sentiva chiaramente che quello non poteva coincidere
Nel 2001 ricevetti un testo di Jung come regalo di una conoscente che a dire il vero mi stupì nella sua brama di volermelo regalare. Lo lessi solo in parte sapendo che un giorno l'avrei terminato, un giorno che non sapevo quale giorno e quale anno sarebbero stati.
Quando venne il tempo ripresi tra le mani il libro e quella volta accadde come un incendio. L'esultanza di un'anima che finalmente poté essere vista.
Questa esperienza così intensa, più intensa di tutte le altre, mi fece capire che dietro ad ogni accadimento esiste una specifica causa e che ognuno di noi è attraversato da una linea impercettibile che, provenendo dal passato, ci possiede attraverso la vita, per poi dirigersi oltre... Quasi alla fine del libro fu lo stesso Jung a darmene conferma.
"Io cerco di vedere la linea che attraverso la mia vita ha portato nel mondo, e poi di nuovo fuori del mondo"